Solitudine, difficoltà e crisi di alcune donne straniere a Milano. Analisi di due casi clinici.
di Giulia Remorino, psicoterapeuta.
I casi che presenterò sono emblematici di quanto sia difficile, ancora oggi, per una donna gestirsi e tutelarsi in un paese straniero che in teoria ne protegge i diritti, ma spesso la fa sentire abbandonata, sola, priva di riferimenti e sostegno.
Quando questa donna ha un bimbo, la questione si complica a livello esperienziale perchè – se riesce ad ottenere aiuto – si sente poi giudicata e minacciata nel proprio ruolo di madre da persone che non parlano la stessa lingua e che spesso rivelano una mentalitá completamente diversa, non in grado di creare sinergie, empatia o capacitá
d’immedesimazione con lei.
La madre sola allora si difende creando una barriera protettiva fra se stessa e quella stessa societá che la ospita, presso
cui talvolta si è rifugiata, ma delusa spaventata ed adirata, rischia con comportamenti d’isolamento ed aggressivitá di alienare il suo ruolo di madre, mettendo a rischio il bambino stesso.
Colette appartiene ad una famiglia emigrata dal centro africa alcune generazioni fa. I nonni si stabilirono in un’isola dei Caraibi e i sui genitori decisero di trasferirsi in Florida, USA.
Molto giovane, carina ed intelligente, non potendo proseguire gli studi, accetta un impiego che non la soddisfa.
Quando incontra Daniele, studente italiano, nasce una storia d’amore basata più sull’entusiasmo che sulla reciproca comprensione.
Colette accetta di partire per l’Italia con Daniele, fiduciosa ingenua e desiderosa di vivere la stabilitá, magari di riprendere gli studi.
L’aspetta una situazione molto diversa.
Le viene contestato di non guadagnare, di non capire niente, e comincia un sempre più serrato attacco abusante nei suoi confronti.
Daniele non riesce bene nel suo primo lavoro, è frustrato. Sfoga la frustrazione su di lei con le prime violenze fisiche, giustificato e coperto dalla famiglia che considera Colette una intrusa.
La ragazza inizia a sentire di non valere niente, è spaventata e bloccata in una difficile ricerca di integrazione.
Quando nasce suo figlio, il piccolo viene gestito dagli suoceri mentre lo stesso Daniele sostiene quanto Colette si inadeguata come madre.
È soltanto dopo l’ennesima scenata, quando è stata colpita mentre teneva il bimbo in braccio, poi chiusa per ore in una stanza perchè “si pentisse”, solo allora Colette riesce a contattare la nostra Associazione e a ricevere una prima assistenza.
Come ben sappiamo, è difficile ricostruire
dopo una così massiccia distruzione.
Si pensa di aver colpa, di essere davvero inadeguate, e non ci si fida di nessuno.
Un caso a sé sono poi i traumi nel bambino, che comunque supererá al meglio se la madre riesce a trovare un punto di stabilitá.
Un altro grave problema, per le molte Colette che si rivolgono a noi, è la tutela del bambino.
Il bimbo è figlio di un cittadino italiano, che opportunamente sporge denuncia contro una madre bizzara, inadeguata, poco comprensibile nei propri comportamenti e soprattutto priva dei diritti e dello status di cittadina italiana.
Quindi in molti casi, oltre al maltrattamento subìto, di profila per questa ragazza che viene da lontano, una vera guerra per proteggere il proprio diritto di gestire autonomamente il figlio.
La stessa Colette è stata a lungo nominata nel ruolo di madre, poichè doveva difendersi da accuse volte a togliere la custodia del minore, dimostrando ripetutamente di essere una madre adeguata.
In questi purtroppo frequentissimi casi, la collaborazione fra il professionista legale e lo psicologo diventa una risorsa essenziale .
Senza questo fronte comune Colette può disorientrasi nella giungla della burocrazia, cadendo in un sconforto impotente che può portarla a tornare dal proprio disfunzionale aguzzino o perfino ad abbandonare il figlio sentendo di non farcela.
Valutare queste situazioni di profondo disagio esistenziale è una grande responsabilitá. Spesso infatti i dati a nostra disposizione sono fuorvianti e incompleti. La figura del curatore del minore oggi contribuisce a rassicurare che il bimbo venga veramente tutelato mentre si indaga sulla coppia genitoriale.
Per favorire una obiettivitá maggiore e dare spazio di sincera espressione alla madre, molto spesso l’opera di un mediatore culturale permette di sentirsi capita e riconosciuta, in un Paese dove non ci sono amici fidati e di cui bisogna approfondire le peculiarità socio culturali.
Un aspetto signaficativo del disagio femminile e materno è sovente, soprattutto oggi, la migrazione.
Il 2° caso emblematico che volevo portare, per contribuire ad una discussione con voi su queste gravi situazioni esistenziali, riguarda Sara, originaria dell’Arabia Saudita.
Sara da ragazzina aveva sofferto le angherie dei fratelli e subìto le botte del padre, il tutto a scopo educativo per via dell’ingegno brillante e del carattere non sottomesso della ragazzina.
Appena maggiorenne Sara riesce a recarsi in Italia con l’aiuto di un’amica, e con vari prtesti porta con sè la sorellina minore ottenendo il permesso dei genitori per via di seri problemi di salute della bambina.
La vita per Sara non è per niente facile.
Vorrebbe lavorare e studiare, ma per quanto aiutata da alcuni amici non riesce a gestire il tutto. La sorella, migliorata grazie alle cure, richiede però un’assistenza che Sara non riesce a dare.
La ragazza ha un crollo nervoso e viene ricoverata.
Entra in contatto con noi dopo il padre e il fratello, giunti in Italia, l’hanno minacciata di riportarla in Arabia Saudita per curarla in un Ospedale Psichiatrico, togliendo subito la possibilità di restare in Italia con la sorella minore.
Per la bambina non è stato possibile allo stato attuale impedire il rimpatrio, ma per Sara è stata avviata una psicologica e legale indagine, volta a stabilire che la ragazza è nel pieno possesso delle sue facoltà e può quindi esprimere la propria volontà circa il presente e i progetti futuri.
Sara sta investendo nella sua nuova identità libera in Italia. Vuole imparare la lingua e studiare. Nonostante la viva intelligenza è difficile darle la fiducia in se stessa di cui avrebbe bisogno.
Nonostante la resilienza e la capacità di chiedere aiuto, ancora oggi appare divisa in due: fra l’accettazione del modello d’autorità impostole fin da bambina e la possibilità di gestione sovrana della propria vita per cui ha tanto lotatto.
Anche quando in Tribunale i suoi diritti venissero sanciti, e potesse anche denunciare ad una Corte Internazionale, i soprusi subìti, la vera battaglia è dentro di sè : nel credere ad un possibile definitivo riscatto, per se stessa e per le tante altre ragazze prigioniere, sottomesse ma piene di speranza come lei.
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